giovedì 12 agosto 2010

last impressions of a crazy summer...

Devo mettere in ordine.
Devo preparare la valigia che domani si parte per il lavoro.
Devo fare mille cose.
Ma non ci riesco.
Sono qui seduta in camera, mi guardo attorno e penso: ma dov'è finita quest'estate 2010??
L'avevo aspettata così tanto, eppure ormai è agli sgoccioli e... non l'ho nemmeno vista passare!
L'ho vissuta a singhiozzo: dieci giorni a giugno, una settimana a luglio, qualche giorno di agosto... Ed ora? Ora ormai è finita: una settimana di lavoro e poi due settimane a Bressanone con l'università.
E ormai arriva settembre!
Una cosa mi ha insegnato questa assurda e strana estate 2010: ci sono persone a cui tieni un sacco pur conoscendole da pochi mesi, ed altre che conosci da una vita eppure più di tanto non contano....
E così, quasi senza esserne consapevole, mi ritrovo a pensare a voi, che siete partiti per la tanto attesa vacanza (per cui ci avete scartavetrato le palle per sere e sere!!!!!) che ci terrà lontani fino a settembre ormai... Ed è dura, perchè quei legami si sono rafforzati in maniera incredibile durante questa folle estate...
A. è diventato il mio fratellino, da coccolare e proteggere da tutto, e dalle cattiverie di chi lo considera un ragazzino sciocco, mentre D. ... beh, D. è diventato semplicemente uno dei miei migliori amici. Ci parlo, ci scherzo, ci rido, ci insultiamo, ci buttiamo in piscina a vicenda (anche se lui è troooooppo forte per me!!!), ci abbracciamo, ci picchiamo, ci sentiamo su facebook, lo difendo a spada tratta da chi lo pensa un coglione solo perchè è troppo buono, da chi lo reputa frocio solo perchè non fa il puttaniere come altri...
E li abbiamo vissuti talmente intensamente questi giorni che ora mi mancate in una maniera impressionante.
E anche se ci rivedremo a settembre, mi fa sorridere sapere che con voi è sempre un po' estate.
Vi voglio bene.


martedì 3 agosto 2010

memories

Cinque febbraio 2002 e due aprile 2009.
Otto anni, cinque mesi e ventinove giorni.
Un anno, quattro mesi e un giorno.
Eppure fa male, ancora. E tanto.
Un dolore diverso, ma sempre presente.
E io che mi illudevo che il tempo lenisse, migliorasse pian piano le ferite. Non è così.
O meglio, magari non ci pensi con la stessa frequenza, ma nel momento in cui ti fermi, ecco: lì sei perduto.
Ed è strano pensare ai percorsi della mia mente, alla inspiegabile elaborazione del lutto: l’alternanza costante di periodi di relativa quiete a settimane in cui basta un niente per crollare.
Io le sento le lacrime ancora prima che gli altri le vedano, sento l’ormai familiare nodo alla gola, lo stomaco che si contrae e la bocca secca. E le parole che si fermano a metà: ecco, è così che la gente che mi sta intorno se ne rende conto, sentendo la mia voce che trema, le parole che faticano ad uscire, il balbettare di chi è sull’orlo del pianto.
C’è una parola tabù per me: e non è una parolaccia, né un qualcosa di scabroso o scandaloso. È una parola di sei lettere. Tre sillabe. Ma solo a sentirla mi paralizzo, mi irrigidisco come quando ti trovi davanti ad un avversario che non sai proprio da che parte cominciare ad affrontare.
Tumore.
E giù lacrime. Tante. In ognuna c’è tutta la mia rabbia, il mio dolore, i miei “perché???”.
Ho perso Claudia che avevo (e anche lei) quattordici anni e mezzo. Due bambine che fino che a ieri giocavano a fare le grandi insieme a scuola, in cortile, per strada. Ero rimasta da sola, e son cresciuta da sola, di colpo. Senza di lei. Sono cresciuta con quel piccolo dolore nel cuore: nascosto ma c’era.
Quante lacrime, quanti silenzi.
Non fraintendetemi: ho vissuto la mia vita come qualsiasi ragazza della mia età, tra shopping, scuola (e poi università), ragazzi (giusti e sbagliati), vacanze, serate in discoteca, alcolici, feste, tutto.
Forse, senza nemmeno rendermene conto ho cercato di vivere un po’ anche per lei, chi lo sa.
Ho vissuto la mia vita, continuo a viverla, ma quel piccolo dolore c’era e c’è ancora.
E solo a mia madre era, ed è, concesso di vederlo, di darmi l’illusione di serenità con un abbraccio. Agli altri no, temo sempre non riescano a capire. O che forse non se ne vogliano prender il tempo.
L’anno scorso mia nonna.
Dopo sette anni a letto. Tutti ce lo aspettavamo, ma quando poi è successo nessuno ha capito, nessuno ha saputo spiegarselo.
Ho reagito in modo strano: la mia mente ha chiuso fuori il dolore per un giorno intero, finché poi alla sera me ne sono resa conto.
Mia nonna non c’era più, non avrei più potuto accarezzarle la guancia tracciando con le dita i solchi delle sue mille righe, non avrei più passato la mano fra i suoi morbidi capelli, non avrei più potuto rubare di nascosto le golia dall’armadio della cucina, non l’avrei più vista mentre si pettinava e si faceva lo chignon ogni mattina, non avrei più guardato la tv con lei, non avremmo più giocato a carte né addobbato insieme l’albero e il presepe.
Mi mancano quei piccoli gesti, la sua voce, il suo sorriso anche quando mi rimproverava, mi manca il suo letto duro su cui mi divertivo a saltare.
Vorrei la forza.
Vorrei poter pensare e non piangere.
Vorrei non sentir più lo stomaco stretto in una morsa, le parole bloccate in gola, e le lacrime lì, proprio dietro le palpebre.
Vorrei poter ricordare ogni istante che ho avuto la fortuna di passare accanto ai miei due angeli.
Vorrei che il tempo lenisse almeno un po’ quel dolore, anche se ormai ho imparato a conviverci.
Vorrei poter tornar bambina e rivivere tutto, per assaporare ogni attimo e cercare di imprimerlo a fondo nella mia mente.
Vi direi, una volta di più, quanto vi voglio bene.
Siete state due persone così importanti, in due modi così diversi. E mi mancate, in modi diversi, ma forse è lo stesso in fondo.
Oggi come allora. Se non di più.